giovedì 12 luglio 2018

The Universal Sigh - Radiohead's free newspaper

The Universal Sigh
Radiohead









Per promuovere l'uscita di The King Of Limbs i Radiohead hanno distribuito una pubblicazione gratuita, The Universal Sigh (Il Sospiro Universale), ispirata a quotidiani gratuiti come LA Weekly o London Lite.
The Universal Sigh, composto da 12 pagine stampate su carta da giornale, presenta opere d'arte, poesie, testi, insieme a racconti di Donwood, Jay Griffiths e Robert Macfarlane. La distribuzione è avvenuta presso alcuni negozi di dischi indipendenti in tutto il mondo dal 28 marzo 2011.
Donwood e Yorke hanno distribuito delle copie di The Universal Sigh in un negozio di dischi nella zona est di Londra.
Qui sotto la copertina della versione italiana e l'intera versione inglese del giornale con la sua traduzione in italiano. Buona lettura!




Ghiacciato
Tutto era normale come avrebbe dovuto essere finché un giorno mi sono svegliato e c’era qualcosa che non andava
Non sapevo cosa fosse, ma era come una sensazione persistente che non potevo ignorare.
C’era qualcosa di freddo, ed era dentro di me, non fuori. Era come se qualcuno mi avesse infilzato con un pezzo di ghiaccio. Una scheggia di inverno.
I giorni passavano come sempre e diventava sempre più freddo. Il freddo continuava a propagarsi finché non diventai una scultura di ghiaccio. Non starnutivo più e non riuscivo più a piangere, e se provavo a uscire si formava come un tentacolo di porcellana. Ero un uomo solido. Potevi tirarmi delle pietre e non mi faceva male per niente. Mi sbeccavo solo un pochino
Per fortuna, forse, nessuno notò niente e tutto continuò a scorrere normalmente come avrebbe dovuto, tutto intorno a me
Ma io ero ghiacciato.

Polvere Di Stelle
Dio ha di nuovo tirato fuori la polvere di stelle.
La sparge in ogni direzione. Le Sue dita gigantesche hanno toccato la fine della strada e lentamente ogni cosa vivente e inanimata è diventata completamente luccicante e scintillante. Una fine ghiacciata. L’incantesimo di una strega cattiva.
Io sto qui e aspetto pazientemente che il Suo dito mi tocchi e congeli anche il mio sangue. Che da quel momento le mie funzioni inizino lentamente ma senza sosta a stridere fino a fermarsi del tutto. Che i tamburi rallentino il loro ritmo finché ci sia silenzio. Che tutte queste sensazioni vengano finalmente paralizzate da forme frattali che coprano inesorabilmente ogni superficie vivente.
Poi tutto potrà ritornare di nuovo normale. E io potrò iniziare a dimenticare.

Fuori, Dentro, Fuori
Cammino su una vecchia strada coperta di muschio in mezzo ai boschi. E’ prevista neve. Vorrei smarrirmi in una tempesta. Tuttavia qui non c’è neve. Solo i rumori distanti del traffico e gli uccelli che si parlano tra loro.
Mi siedo su un albero spezzato. Il cielo è grigio. Piume grigie sparse sul muschio.
Un becco: la carne sanguinante è ancora attaccata. Rosso su verde pallido. Una sirena, in lontananza.
Intorno a me i corvi gridano. Impigliati nei rovi. Graffiati dalle spine.
Gli altri umani mi terrorizzano. Piccoli fiocchi cadono. Fredda pelle morta. Si insinua nel sottobosco spinoso. Un altopiano fangoso. Solchi ghiacciati. Il suono del traffico e degli aeroplani. E’ difficile pensare. Mi appoggio sul filo spinato. Due stormi di uccelli attraversano la tangenziale. Un falò abbandonato si sta spegnendo.
Un cerchio di grigia polvere bollente.
Già polvere bollente. Un uccello si tuffa e precipita. Vento freddo da est.
Sono nel bosco. Un sentiero innevato. Entro in una cava abbandonata. Ci sono grotte ovunque. Ne esce aria calda che odora di sangue e io sono troppo spaventato per addentrarmi.
Perdo la strada. Riemergo dal bosco battendo le palpebre. Un campo da golf. Ho fame ma so di essere lontano dal cibo. Vorrei che nevicasse.
Uno scuro cespuglietto pubico nell’inguine di un faggio. Una casa in rovina.
Un cartello; bosco privato, divieto d’accesso.
I rami brillano al sole. Guardo il cielo dalla cima di questa collina. Credo di essere circondato da bufere di neve. Una mi passa sopra la testa. Ci entro dentro, il sole è ancora alto. La mia ombra è chiara come d’estate, ma ho la Neve nel collo. Guardo valli piene di neve soffiare verso di me. Non ho rifugio, gli occhi mi lacrimano per il vento freddo.
La neve va sempre più veloce, picchietta sul mio cappotto. Cade veloce. E’ ipnotico. Sto diventando un pupazzo di neve. Le mie mani sono quasi troppo fredde. 
Il sole in lontananza. Finirà presto. Le nuvole si diradano: la scia di un fantasma.

Covo
Desidero compagnia, non ho stima di me stesso e voglio dimostrare quanto valgo.
Sento la delusione e l’infelicità che hanno accompagnato la mia infanzia. Non capisco cosa non vada. Irritabile e insoddisfatto.
Amichevole e aperto, nonostante ciò sembra che niente vada bene. Inquieto, non amo la routine, ho bisogno di stimoli e mi è difficile alzarmi la mattina.
Reagisco male agli shock e ho pesanti fobie, specialmente di stare in mezzo alla folla, e non amo uscire.
Passo ore a sistemare disperatamente le cose, ma alla fine non risolvo quasi nulla. Irritabile, nervoso, inquieto e difficile da accontentare.
Sono inquieto, senza speranza, cupo e ho un’immaginazione malata. Non importa quanto stia male, nego sempre di avere qualsiasi problema e mi rifiuto di andare dal dottore. Preferisco essere lasciato solo. In forma e in salute, forte, corpo e mente energici. Vivace e simpatico. Quando ammalato, divento violento e ostinato. Posso colpire, mordere o dare calci. Malattia caratterizzata da comportamento inquieto ed agitato, con estrema sensibilità a luci, rumori, movimenti o contatto fisico.
Mi fisso obiettivi importanti, e un’ambizione assillante mi porta allo stacanovismo. Un eccessivo senso del dovere, mi sento sempre come se non fossi stato bravo quanto avrei dovuto. Sensibile alle opinioni degli altri, rimango facilmente ferito. Talvolta mi dispero. Ciò può portarmi alla depressione clinica e al suicidio.
Molto materialista. Vedo la vita come una lotta per la stabilità economica. Temo molto la povertà anche quando sono finanziariamente realizzato. Ho sane abitudini, sono critico, meticoloso, affidabile.
Temo il soprannaturale, preferisco la luce all’oscurità, ho idee inamovibili.


Attraverso Un Grande Divario!
Buongiorno Mr Magpie, come va oggi?
Ora che hai rubato tutta la mia magia e ti sei preso le mie melodie?
Hai un bel coraggio a farti vedere qui.
Hai un bel coraggio a farti vedere qui.
Me l'hai rubata ora ridammela.
Me l'hai rubata ora ridammela.
Buongiorno Mr Magpie, come va oggi?
Sai che dovresti ma non lo fai,
Sai che dovresti ma non lo fai...
Apriamo bene la bocca.
Un sospiro universale.
“E allora perché mi fa ancora male?”
Non sbalordirti del perché.
Perché tutto questo non ha senso?
Non lasciare che ti sbalordisca.

Attraverso un grande divario.
Gli occhi di una tartaruga gigante.
Meduse passano galleggiando.
Le tue regole non valgono.
Aperte come il cielo.
Le buche che misuriamo.
E' ciò che mi mantiene vivo.

Perché tutto questo non ha senso?
Un ragno a una mosca.
Un sospiro universale.
Gli occhi di una tartaruga gigante.
Non sbalordirti del perché.
La corrente è troppo forte.
Non lasciare che ti sbalordisca.
Attraverso un grande divario.
Le parole tra le righe.

Niente di tutta questa roba è mia.
Spalanco le braccia.
Apri il tuo cuore e sorridi.
Non essere così serio.
Non c'è bisogno di fare quella faccia.
Io sono sempre davanti a te.
Le carte sono state distribuite.
Sto andando fuori orbita.
Faccio capovolte.
Non c'è da chiedersi perché.
Questa sensazione mi fa girare la  testa.
Ovunque vada la corrente.
Poco tempo prezioso.
Distanze e tempo
Il vento porta con sé tutte le foglie.
E poi porterà via me.
I ruoli che dobbiamo interpretare.
Non posso far altro che ridere.

E' come se fossi caduto dal letto dopo un lungo e vivido sogno.
I frutti maturi più dolci erano appesi agli alberi.
Cado da un uccello gigante che mi stava trasportando.
Come se fossi caduto dal letto dopo un lungo e vivido sogno.
Esattamente come mi ricordavo.
Ogni parola, ogni gesto.
Ho il cuore in gola.
Come se fossi caduto dal letto dopo un lungo e vivido sogno.
Finalmente mi sono liberato di tutto il peso che stavo trasportando...
Lentamente ci apriamo come fiori di loto.
Vorrei solo la luna su uno stecchino.
Solo per vedere com'è.
Solo per vedere come sarebbe se.
Non riesco a perdere il vizio
‘Solo per alimentare il tuo ego da pallone gonfiato.'
“Ascolta il tuo cuore!”
Buongiorno Mr Magpie, come va oggi?
Ora che hai rubato tutta la mia magia e ti sei preso le mie melodie?

Non lasciare che ti sbalordisca.
Attraverso un grande divario.
Gli occhi di una tartaruga gigante.
Meduse passano galleggiando.
Le tue regole non valgono.
Aperte come il cielo.
Le buche che misuriamo.
E' ciò che mi mantiene vivo.
Perché tutto questo non ha senso?
Un ragno a una mosca.
Un sospiro universale.
Gli occhi di una tartaruga gigante.

Non sbalordirti del perché.
La corrente è troppo forte.
Non lasciare che ti sbalordisca.
Attraverso un grande divario.
Le parole tra le righe.
Niente di tutto questo è mio.
Spalanco le braccia.
Apri il tuo cuore e sorridi.
Non essere così serio.
Non c'è bisogno di fare quella faccia.
Io sono sempre davanti a te.
Le carte sono state distribuite.
Sto andando fuori orbita.
Faccio capovolte.
Non c'è da chiedersi perché.

E' come se fossi caduto dal letto dopo un lungo e vivido sogno.

I frutti maturi più dolci erano appesi agli alberi.
Cado da un uccello gigante che mi stava trasportando.

Come se fossi caduto dal letto dopo un lungo e vivido sogno.
Esattamente come mi ricordavo.
Ogni parola, ogni gesto.
Ho il cuore in gola.
Come se fossi caduto dal letto dopo un lungo e vivido sogno.

Finalmente mi sono liberato di tutto il peso che stavo trasportando...
Lentamente ci apriamo come fiori di loto.
Vorrei solo la luna su uno stecchino.
Solo per vedere com'è.
Solo per vedere come sarebbe se.
Non riesco a perdere il vizio

‘Solo per alimentare il tuo ego da pallone gonfiato.'
“Ascolta il tuo cuore!”'


Arrampicarsi Sugli Alberi
di Robert MacFarlane
Il vento si stava alzando, così sono andato nel bosco. Si trova a sud della città, a un miglio da casa mia: uno stretto frammento di faggeto senza nome, sulla cima di una bassa collina. Ho camminato fin lì seguendo le strade fino ai confini della città, e poi i sentieri sui bordi dei campi attraverso siepi di biancospino e nocciolo.
Corvi mercanteggiavano nell’aria sopra gli alberi. Il cielo era di un luminoso e freddo blu, che all’orizzonte sfumava verso il color latte. A un quarto di miglio di distanza, già sentivo il rumore del bosco nel vento; il tenue scroscio marino. Era il rumore di un immenso insieme di frizioni - foglie strusciate contro foglie, rami strofinati contro rami.
Sono entrato nel bosco dall’angolo rivolto a sud. Frammenti iniziavano a cadere dalle fronde in movimento: rametti e frutti di faggio picchiettavano sul ramato strato di foglie sottostante. Raggi di sole cadevano a luminose manciate sul terreno. Ho camminato attraversando il bosco, dirigendomi verso nord, e a metà strada ho trovato il mio albero - un alto faggio dalla corteccia grigia facile da scalare grazie al modo in cui i rami spuntavano dal tronco. Mi ero già arrampicato su quell’albero molte volte, e conoscevo bene i suoi tratti.
Attorno alla base del tronco la sua corteccia grigia è afflosciata ed increspata, e sembra la pelle sulla zampa di un elefante. A circa tre metri d’altezza c’è un ramo che si ripiega bruscamente su sé stesso; sopra quel ramo c’è una lettera “H” incisa nel tronco con un coltellino anni fa che si è gonfiata con la crescita dell’albero; ancora più in alto c’è il moncherino ormai guarito di un ramo mancante.
A 9 metri d’altezza, vicino alla cima del faggio, dove la corteccia è più liscia e argentata, ho raggiunto quello che avevo chiamato il mio osservatorio: un ramo laterale biforcuto che si trova proprio sotto una curvatura del tronco. Avevo scoperto che se appoggiavo la schiena contro il tronco e mettevo i piedi ognuno su un ramo della biforcatura, potevo rimanere comodamente seduto. Se rimanevo immobile per un paio di minuti, la gente passava sotto il faggio senza notarmi. La gente generalmente non si aspetta di vedere persone sugli alberi. Se rimanevo immobile più a lungo, gli uccelli ritornavano sull’albero. Neanche gli uccelli generalmente si aspettano di vedere persone sugli alberi. Merli frugavano tra le foglie; scriccioli correvano da un rametto all’altro così velocemente che sembravano teletrasportarsi; talvolta si vedeva una pernice grigia uscire agitata dalla sua tana.
Mi sono sistemato nell’osservatorio. Il mio peso e i miei movimenti avevano fatto dondolare la cima dell’albero, e il vento aveva esagerato questo dondolio, cosicché presto la cima del faggio ha iniziato a scricchiolare avanti e indietro, descrivendo nell’aria archi di 5-10 gradi. Quel giorno non sembrava più un osservatorio; sembrava più la vedetta di un albero maestro in mezzo alle onde in tempesta.
Da quell’altezza vedevo il terreno circostante come se fosse una mappa. Disseminati qua e là erano altri frammenti di bosco, i nomi di alcuni dei quali conoscevo: Mag’s Hill Wood, Nine Wells Wood, Wormwood. Verso ovest, al di là di campi che assomigliavano a velluto a coste c’era una strada principale, affollata di macchine.
Direttamente a nord c’era l’ospedale, con la sua torre-inceneritore a tre tubi che si ergeva molto più in alto della cima del mio albero. Un grosso aeroplano Hercules stava atterrando su una pista aerea alla periferia della città. Oltre il ciglio di una strada ad est vedevo un gheppio che planava sul vento, con le ali che tremavano per la corrente e le piume della coda disposte a ventaglio come un mazzo di carte. Avevo iniziato ad arrampicarmi sugli alberi circa tre anni prima. O, meglio, avevo ricominciato; perché il cortile dei giochi della mia scuola era un bosco. Lì avevamo scalato e battezzato i diversi alberi, e avevamo lottato per il loro possesso in conflitti territoriali con elaborate regole ed alleanze. A casa, mio padre aveva costruito per me e mio fratello una casetta sull’albero in giardino, che per anni avevamo difeso con successo dagli attacchi dei pirati. Con l’avvicinarsi dei miei trent’anni, avevo ricominciato ad arrampicarmi sugli alberi. Solo per divertimento: niente corde e niente pericoli.
Durante le mie arrampicate avevo imparato a distinguere le diverse specie di alberi. Mi piaceva l’agile flessuosità delle betulla bianche, degli ontani e dei giovani ciliegi. Stavo alla larga dai pini - rami fragili, corteccia dura - e dai platani. E avevo scoperto che gli ippocastani, con il loro tronco senza rami bassi e i loro frutti spinosi, ma anche con la loro incredibile fronda, erano per lo scalatore di alberi sia una difficoltà che una sfida. Avevo scoperto i libri che parlavano di arrampicarsi sugli alberi: non erano molti, ma erano molto interessanti.
John Muir si era arrampicato su un abete di Douglas durante una tempesta californiana, e da lì aveva osservato una foresta ‘l’intera massa della quale andava a fuoco in una continua vampata simile a un sole bianco!’ Italo Calvino aveva scritto un magico romanzo, Il Barone Rampante, il cui giovane protagonista, Cosimo, in piena ribellione adolescenziale, si arrampica su un albero nella tenuta boschiva di suo padre e giura di non scendere mai più a terra. Mantiene fede alla sua impulsiva decisione, e finisce per vivere e persino sposarsi tra le fronde, spostandosi per miglia tra ulivi, ciliegi, olmi e lecci. Ho anche iniziato ad ammirare alcuni dei più importanti esponenti contemporanei dell’arrampicata sugli alberi, in particolare gli scienziati che compiono ricerche sulle sequoie della California e dell’Oregon.
La Sequoia Sempervirens, o sequoia della California, può raggiungere un’altezza che supera i 90 metri. Gran parte di questi 90 metri è composta da un tronco senza rami; ma poi arriva un’imponente fronda, densa di rami. Questi moderni uomini-ragno hanno sviluppato incredibili tecniche di arrampicata. Usano arco e frecce per agganciare una corda a un ramo solido. Poi usano questa corda per issarsi sull’albero. Una volta tra le fronde, la loro abilità con queste corde è tale che riescono a muoversi quasi liberamente e in piena sicurezza ovunque vogliano. Lassù, nel mondo aereo, hanno scoperto un mondo perduto: un ecosistema incredibile e finora mai studiato.
Non c’era niente di unico nel mio faggio, non era difficile salirci, nessuna forma di vita si rivelava in cima ad esso, e non c’era neanche miele. Ma per me era diventato un luogo per pensare. Un nido. Io lo amavo molto e lui - beh, per lui io non esistevo. L’avevo scalato parecchie volte; all’alba, all’imbrunire e nel pieno del sole di mezzogiorno. L’avevo scalato in inverno, spazzando via la neve dai rami con le mani, toccando il legno che era freddo come pietra, con i neri nidi dei corvi nascosti tra i rami degli alberi vicini. L’avevo scalato ad inizio estate, osservando la bollente campagna circostante, quando il calore ispessisce l’aria e si sente il fiacco ronzio dei trattori provenire da qualche parte nei vasti campi sottostanti. E l’avevo scalato anche con la pioggia scrosciante, quando l’acqua cade in gocce così grosse che si vedono ad occhio nudo. Salire sull’albero era un modo per vedere le cose in prospettiva, seppur ridotta; per guardare dall’alto una città che di solito guardo da terra. Stare sopra tutto era un modo di far fronte alle richieste che la città aveva nei miei confronti. Chiunque vive in una città conosce bene la sensazione di esserci stato troppo a lungo. Le strade che sembrano burroni, la sensazione di essere bloccati, il desiderio di vedere superfici coperte non solo di vetro, mattoni, cemento e asfalto - il bisogno di un luogo selvaggio, di qualunque tipo esso sia.

Robert MacFarlane è l’autore di “The Wild Places”.





SPUTO SUI LUOGHI COMUNI
MI SEMBRA DI ESSERE UN BABBEO
SONO UN FANTASMA
IN DISSOLVIMENTO
LE CASE SONO BRICIOLE
SULLO SFONDO DEI CAMPI
LE STRADE SONO COME CICATRICI
CHE SFRECCIANO TRA I VAPORI
TUTTI I PENSIERI SONO TRASPARENTI
SI CONSOLIDANO SI DISSOLVONO
SEI UN FANTASMA
IO ARTIGLIO ED AFFERRO
AGGRAPPATO AD UNA ZATTERA
FACCIO GIRARE LA RUOTA
LE PERSONE SONO FORMICHE
LE CASE SONO BRICIOLE
SULLO SFONDO DEI CAMPI
LE STRADE SONO COME CICATRICI


Il Libro Del

il libro del perdono
il libro delle domande
il libro del bel sogno
il libro del lato oscuro
il libro delle scuse
il libro dei ricambi
il libro dell’irreale
il libro dell’autosalvataggio
il libro degli sfondi
il libro della disconnessione
il libro del teletrasporto
il libro dei miei pensieri


UN’ALTRA MONETA PER LA GIOSTRA


DI SOLO
DOVE VUOI ESSERE
Ti porterò ovunque tu voglia andare.
Posso accenderti e farti felice.



APERTO.
NON PIÙ NASCOSTO.


qualcuno ha fatto un buco
ed ha lanciato la prima pietra
senza nessuno sforzo

sotto al tuo mento
si raddrizza il tuo collo
una risata tesa sulle tue labbra

sono tornato bambino
il futuro a bocca aperta
e tutto è possibile
possibile
possibile

prima di trasformarci in cenere
con un tocco leggero
strappa questa pagina da me
spargi l’inchiostro
spargi l’inchiostro



parole stupide sono tutto ciò che ho
flebili e spoglie
finestre nell’oscurità
perdute
al vento

non riesco a capire
cosa mi spinge
a saltare tra le righe
segretamente



IL MALTEMPO PASSA ATTRAVERSO LE FINESTRE
DEVO FARLE SOSTITUIRE
SBATTONO CON LA PIOGGIA ED IL VENTO.
NON C’È NESSUN ALTRO IN CASA
SOLO TU E LEI.
STENDITI, TORNERÒ PER TE.



NON SEI ALL’ALTEZZA
DATTI UN CONTEGNO



Foreste Della Mente
di Jay Griffiths
‘Si.’
Mi ricordo di aver detto quella parola come se da essa dipendesse la mia vita, e forse non saprò mai che è stato così.
Non sono nemmeno riuscito a dirla ad alta voce. L’ho detta ad occhi chiusi, come una persona chiederebbe aiuto, o come un bambino esprimerebbe un desiderio o come un cantante chiuderebbe gli occhi durante la nota più significativa della sua canzone.
Fu un sì molto sentito, ma sussurrato, perché riuscivo solo a sussurrare. Era quel sospiro che spesso dà inizio alle storie. Shh. Il rumore del traffico svanisce. Gli annunci della stazione si zittiscono. I treni fanno silenzio. Quiete. Quiete come le pause che si fanno quando aspetti la parola giusta. Zurrumurru - sussurro, nella lingua basca. Shh. Esci dalla stazione, vai verso il bosco. Un passo oltre al limite, è qui che si sconfina nella storia.
Basta che tu dica sì.
La mia storia è iniziata quando già soffrivo di depressione da mesi. Molti conoscono quel luogo privo di vita, in cui qualunque direzione in cui tu rivolga lo sguardo ti sembra inaccessibile: c’è scritto “No” da tutte le parti, su tutte le strade.
Ero perso in quel senso di vuoto cupo e sconfortante, infestato da desideri di suicidio, tutta la mia vitalità era sparita. Poi, un giorno, qualcuno mi lanciò una corda, un’ancora di salvezza in questo abisso privo di vita.
Un antropologo che conosceva la mia situazione mi telefonò e mi invitò ad andare con lui nell’Amazzonia peruviana per visitare gli sciamani che lavoravano con le impressionanti medicine della mente prese dalla foresta.
Dovetti dire sì alla proposta e sì alla storia, perché a volte l’albero della vita può essere una cosa letterale.
Da Lima abbiamo preso un piccolo aeroplano, poi una macchina, poi un peque peque: una di quelle piccole piroghe motorizzate che percorrono su e giù i fiumi dell’Amazzonia. Dal fiume camminammo fino al centro degli sciamani, attraverso la foresta che ti punge, ti morde e poi ti accarezza con foglie soffici come le orecchie di un gattino. La corteccia di un albero profumava di noce moscata, e l’aria era piena di odori, da fiori che sapevano di miele al penetrante odore della linfa, all’acido tanfo di fetide pozzanghere coperte di muschio. Quasi riuscivo a sentire anche l’odore della luce del sole. Foglie di palma si agitavano nell’aria calda e umida, e l’intera foresta brulicava di vita.
Arrivata la sera, ci sistemammo nella capanna degli sciamani; e iniziò una lunga nottata per la mia mente. Bere la medicina che mi diedero fu come bere cicuta e stelle: amara come l’una, brillante come le altre. Le cicale e il frullare delle ali degli uccelli notturni punteggiavano la notte di rumori e tutta la foresta sembrava accoppiarsi, fare le fusa, frusciare, avvilupparsi e osservare.
Io ero circondato dal calore e dal respiro della foresta, verde e vitale, ed era come se mi stessi imbevendo della sua essenza, del suo spirito, della sua anima - e ne avevo disperatamente bisogno, perché la mia l’avevo persa.
Prima di visitare questi sciamani non avrei mai usato il termine “perdita dell’anima”, ma era così che mi sentivo, la mia psiche era infelicemente persa e sola.
Gli sciamani credono che il loro lavoro consista nel viaggiare nei paesaggi della mente per andare alla ricerca dello spirito e riportarlo indietro più forte di prima.

. . . . . . .

Alcuni termini che la psicologia usa per indicare il benessere sembrano descrizioni di alberi: “mettere radici”, “avere radici profonde”, essere capace “di stare in piedi da solo” e anche “diramare”. Le foreste sono state a lungo associate con la psiche, e sembra una costante nell’uomo il vedere gli alberi come un buon modo per ricercare la verità. In tutto il mondo le persone si fidano degli alberi per la loro solidità e la loro affidabilità, sia letteralmente che metaforicamente. E’ intrigante che nella lingua inglese le parole “tree” ‘albero’, “trust” ‘fiducia’ e “truth” ‘verità’ siano affini, come se la razza umana avesse sempre creduto che gli alberi siano l’incarnazione della verità.
Un anziano indio ha detto che l’Amazzonia è “una vasta distesa, simile a una perspicace testa umana”.
Da noi si parla dell’ “albero della conoscenza” e gli alberi sono spesso associati al concetto di saggezza; il Buddha meditava sotto un albero in India, i Sadhu si ritirano sempre nelle foreste per acquisire saggezza. I Nativi Americani rendevano onore all’idea di un Albero Sacro. Una volta ero con alcuni indigeni dell’Amazzonia mentre guardavano le loro foreste venire distrutte, le loro terre cancellate. Piangevano. “Distruggere le foreste è come distruggere noi,” hanno detto. “Noi siamo questa terra.” Deforestare l’Amazzonia è come deforestare la mente umana.
Gli Sciamani sono i dottori e gli psicologi della foresta; le loro medicine sono farmaci gratuiti. L’Amazzonia ha i suoi artisti, musicisti e filosofi che intrecciano le foreste con i sentieri della mente. Le foreste sono ricche delle espressioni artistiche, musicali, linguistiche e culturali della mente, e distruggere l’Amazzonia sarebbe come bombardare la Filarmonica di Berlino; appiccare incendi al Louvre; squarciare tutti i libri di Shakespeare; radere al suolo l’Opera House di Sydney e bruciare le composizioni di Mozart.
Nel frattempo, mentre giacevo nella capanna degli sciamani, la notte nella foresta era letteralmente incantata. Uno degli sciamanti cantilenava incantesimi, quei canti, o icaros, che sono i sentieri musicali dell’Amazzonia.
Eterei, sussurrati fino a diventare quasi impercettibili, i canti vengono a volte fischiettati, a volte cantati, altre volte ancora sembrano il suono di flauti lontani chilometri, di musica sentita indistintamente da una fonte sconosciuta, dove la melodia è più simile a un profumo, a una dolce resina nell’aria proveniente da un albero nascosto. Mi sentivo come se non solo stessi bevendo la foresta, ma stessi anche sentendo la sua essenza.
Lo sciamano rimase zitto per un po’, e poi iniziò un altro canto, uno del luogo, sugli alberi e i boschetti tipici della foresta. Cantava una delle sue “songlines”. Anche se sono le Songlines degli aborigeni australiani ad essere le più note, io sostengo che l’intero mondo sia avvolto da “songlines”, in cui l’amore dei popoli per la terra si trasforma in musica.
Il canto tacque nell’afa per un po’, muto, poi dalle ombre si fece avanti un piccolo germoglio di foglia di canto. Tutti i canti sembravano essere cantati in una tonalità di verde. Il canto sembrava vivo come una pianta, e in un fischiettio udii un ciuffetto di sottili fili d’erba, e poi la musica crebbe, elastica e dolcemente energetica come un giovane albero che trabocca di verdi significati; il canto si attorcigliava come una vite, la melodia si avvolgeva in una foglia. La musica era verde e vivida e ricordava le piante in maniera così forte che anch’io mi sentivo simile a una pianta, radicato nel terriccio di foglie marroni e assetato di sole.
La musica saltò verso la luce, si inerpicò come una vite, striata dal calore del mezzogiorno e dall’umidità dell’aria. Poi, da quell’altezza, la musica scese di un paio di tonalità, come una foglia che cade, planando dalle fronde al suolo della foresta.
Tutti sanno che l’Amazzonia è fonte di un incredibile numero di medicine per curare le malattie del corpo, ma è anche una cura per la mente. Non è questo, lo vorrei sottolineare, sotto forma di estrazioni chimiche trasformate in pillole, ma sotto forma di vera e propria cura, che deriva dall’insieme di medicine, sciamani, canti e foresta. La somma di questi elementi è, in una parola, la vita. E’ questo che esiste nelle foreste dell’Inghilterra o dell’Australia, dell’America e di qualsiasi altro luogo: ovunque ci sia una foresta c’è vita. E il ruolo degli sciamani? E’ rintracciabile anche quello, ovunque ci siano musicisti, artisti, poeti visionari e scrittori disposti a rivolgersi agli alberi per ottenere saggezza; disposti ad ascoltare il canto della terra.
Che le foreste siano i polmoni del mondo lo sappiamo. Che il mondo abbia bisogno delle foreste per respirare, lo sappiamo. Ma le foreste sono anche fonti di spirito, come ho scoperto io stesso quando il mio spirito era perso. Le parole “spirito” e “respiro” sono simili in molte lingue: “anima”, in latino, significa sia “respiro” che “anima”; psyche, in greco antico, significa sia “respiro” che “anima”. Il mio acuto senso di perdita dell’anima, di essere diventato pericolosamente “in-animato”, è stato curato dall’animazione e dallo spirito delle foreste.
Le foreste sono un luogo di trasformazione, di cambiamento di forma.
Nel bosco lo spirito può stirarsi e cambiare, può muoversi come un salice, con i suoi movimenti snodati e scattanti. L’intero umore di una giornata può cambiare dopo una passeggiata tra gli alberi del parco, anche nel centro di una grande città. I boschi assorbono i cattivi umori e alleviano il mal di testa. Ci cambiano. Nei boschi puoi perderti nei tuoi pensieri, perderti volontariamente, perderti creativamente, il che ti permette di accedere alle foreste della mente, dove la mente stessa può spingerti in posti che cercavi ma non avevi ancora trovato. Un bambino potrebbe andare nei boschi per sognare di mascherarsi come un personaggio diverso, lontano dagli occhi degli adulti. Nel bosco selvaggio dei sogni d’infanzia, i bambini possono giocare a “Facciamo finta che...” e se i bambini non possono sognare, allora sono condannati alla realtà.
I boschi profumano di storia come di aglio orsino, possono rappresentare un momento d’inizio, una pausa sulla soglia prima di partire per un viaggio e possono raccontarci una storia infinita. Un bambino appoggiandosi a un albero, può ascoltare i merli, osservare i conigli e le volpi e, se è molto fortunato, avvistare un tasso. Il bambino abbandonerà la foresta, ma la foresta non abbandonerà mai il bambino. Respira profondamente la foresta durante l’infanzia e il canto degli uccelli ti accompagnerà per tutta la vita.

. . . . . . .

Dopo il mio soggiorno con gli sciamani, mi sentivo allegro come un grillo. La depressione non ritornò per anni.
Cosa aveva funzionato così bene? Una combinazione di trattamenti sciamanici e musica, ma anche la semplice luminosa vitalità della foresta che, come tutti i luoghi selvaggi, è già di per sé un tonico per lo spirito umano.
La nostra mente ha bisogno del selvaggio, di quell’elemento inconfondibile, indimenticabile, della forza degli elementi, del canto dell’universo, cantato in verdedorato, che riconosciamo istantaneamente appena lo sentiamo. Noi proveniamo da questo canto selvaggio, ed è quando lo echeggiamo nelle sue tonalità più impetuose con intenso e necessario amore che ci sentiamo più vivi.
Tutti gli esseri umani sono essenzialmente creature selvagge e odiano sentirsi reclusi. Ci serve un elemento selvaggio, e fremiamo al solo pensiero di esso, il nostro essere selvaggi trabocca di anarchica joie de vivre. Ci luccicano gli occhi quando la luce del selvaggio brilla. Più ci sentiamo soffocati e rinchiusi - addomesticati dalla televisione, tenuti sotto controllo dal mutuo e dalla burocrazia - più forte i nostri geni selvaggi grideranno, e ciò sfocerà in aggressività, rabbia e depressione.
Cammina. Il tamburo inizia a suonare. Seguilo. Segui il rombo del tuono. Segui il sole. Segui le stelle di notte, quando compiono il loro lungo percorso verso il lato più lontano del cielo. Segui il fulmine e la strada aperta. Segui i tuoi impulsi. Segui la tua chiamata. Mettiti gli stivali.
Siamo stati fatti per affrontare il percorso della vita ben svegli: con una mente mobile, veloce, mutevole. Essere un nomade nella propria mente è un dono: muoversi e imparare, come se fossimo eterni studenti.
La mente, quando lasciata libera, cammina, chiede, cerca, pone dubbi, dubbi alla cui base si trova il desiderio di esplorare, di partire alla ricerca.
E’ come se il mondo intero subisse una tragedia. Le persone depresse percepiscono questa tragedia in modo individuale, ma io credo che si stia verificando un fenomeno molto più ampio, ossia la tragedia del divorzio dall’essenziale elemento selvaggio della vita, la separazione dalla sua natura fondamentalmente comica. La tragedia va in atto demolendo il nostro spirito poco a poco con il troppo lavoro, gli spostamenti in auto, l’esaurimento da ora di punta; le preoccupazioni, i debiti, i conti da pagare, lo stress e le cattive notizie che tutti conosciamo. Ma non ci sono solo tragedie, al mondo.
Per esempio, nonostante tutto, ci sono ancora gli alberi. La selvaggia rêverie dei boschi è ancora dentro di noi e le foreste sono incantate; cantate. Tra tutte le tragedie di distruzione, la commedia esiste ancora rigogliosa nella natura selvaggia, dove la crescita è un’assoluta esigenza, e i nuovi germogli si spingono in alto, anelando al cielo. Perché, in un certo senso, noi non abbiamo mai dimenticato davvero la commedia della vita.
Lo spirito della commedia è lo spirito della vita, un’esuberanza vegetale. E’ uno spirito giocoso, questo. La natura selvaggia e la commedia hanno in comune un amore per la sfrontatezza, ci solleticano con le loro cornucopie. La commedia della vita è ribelle, come la natura sfrenatamente festiva della natura. Tutto e tutti hanno un ruolo in questa arlecchinata.
La commedia si rivela attraverso la vita, con la sua grazia generosa e rigenerativa che la riempie finché non trabocca e poi ricomincia da capo. La terra è riscaldata dalla vita, esplode di vita, fermenta di vita, è ebbra di vita, stride di vita, una vita che sceglierà sempre la via selvaggia, la via contorta, piena di feconde ribellioni e grazia primitiva.
Le foreste rappresentano, per me, l’opposto della depressione. Se la depressione è monotona, le foreste brillano di vitalità. Se la depressione è una stasi congelata, le foreste si dimenano, danzano e saltano. Se la depressione è una malattia terribilmente solitaria, il cuore della saggezza della foresta è l’irrefutabile nozione che tutte le forme di vita siano connesse tra loro. Dopo essermi sentito condannato alla depressione, ho sperimentato la profonda trasformazione delle foreste. Dopo aver sentito l’avvicinarsi freddo e silenzioso di qualcosa di potenzialmente fatale nella mia depressione, ho trovato in Amazzonia qualcosa che esprimeva l’esatto opposto, una profusione di linguaggio in un entusiasmo insopprimibile, una vita che ringhia, fiorisce, fa le foglie, fischia e germoglia, guizzando in una festa forestale di verbi verdeggianti e rumorosi, la foresta vibra di linguaggi, un universo intero ride di vita.
E dice solo una cosa - sì.

Jay Griffiths è l’autore di ‘Wild: An Elemental Journey’.



Vendi Casa E Compra Oro
di Stanley Donwood
Il disastro stava arrivando; era ovvio. La vita finora era stata quasi esageratamente facile, e ora le cose sarebbero peggiorate. Peggiorate di gran lunga. Non riuscivo a credere di aver potuto pensare altrimenti. Non riuscivo a credere d’aver mai pensato che avrebbe potuto esserci un altro esito.
Ma l’avevo fatto.
Avevo trascurato migliaia di diversi tipi e varietà di avvisaglie per anni.
Avevo creduto implicitamente nel potere delle Autorità di risolvere qualsiasi situazione avrebbe potuto preoccuparmi. I miei scaffali erano pieni di libri, colmi di spiegazioni scientifiche, e io avevo sottoscritto varie assicurazioni che implicavano che la mia vita avesse un valore economico.
Non pensavo che la mia vita, o più precisamente, il modo in cui la vivevo, fosse effettivamente un suicidio inesorabilmente lungo, anche se, ovviamente, lo era. Piccole cose stavano cambiando, ma io avevo preferito far finta di non vedere. Non mi mancavano le farfalle, e comunque i cinguettii degli uccelli mi ricordavano solo suonerie di cellulare o antifurti.
Pensavo al disastro tra virgolette; “DISASTRO”.
Per me era una cosa che, se fosse successa, avrebbe avuto l’aspetto di effetti speciali estremamente costosi.
Visto che il mondo era grande, e sembrava modificarsi solo nei piccoli dettagli, lentamente ero diventato convinto di molte cose. Mi ero fossilizzato in ciò che mi sembrava un sedimento stabile in eterno.
In questo stato mi dedicavo attivamente a proprietà, abbigliamento, soldi, cultura e avevo un interesse acquisito nel continuare a farlo. E non ero l’unico.
Anche se avevo spesso osservato sciami di efemere appena nate ridotte a brandelli da improvvise e inaspettate grandinate, usavo sempre le carte di credito. Io stesso avevo schiacciato senza pietà intere legioni di formiche sotto i piedi, ma avevo comunque acceso un mutuo per comprare una casa che avevo poi ristrutturato, imbiancato e ammobiliato. E anche se avevo visto in televisione molti segnali di un imminente disastro, avevo continuato ad comportarmi come se nulla fosse.
Tutto questo fu un errore.
No. Non solo un errore; un immenso errore.
Quando, alla fine e senza alcun dubbio, fui costretto ad ammettere alla mia coscienza, incredibilmente sicura di sé, che il disastro stava davvero e inevitabilmente per arrivare, iniziai a prendere dei provvedimenti.
Tutte le persone che conoscevo vivevano in delle case, e divenne rapidamente chiaro che tutte queste case erano o troppo vecchie, o situate in luoghi pericolosi, o comunque per qualche motivo inappropriate. Utilizzammo le nostre competenze, variegate e altamente specializzate, per capire cosa dovessimo fare.
Decidemmo di costruire una nuova casa senza i punti deboli dei precedenti habitat. Scegliemmo un posto e ci facemmo costruire una casa. Il disastro stava arrivando, ma i soldi funzionavano ancora come avevano sempre fatto, come i prestiti, i mutui, le proprietà e tutte le altre cose di cui ci vestivamo. Non pareva ci fosse nessuna particolare urgenza riguardo al disastro, solo una monotona sensazione di inevitabilità. La nostra nuova casa aveva tutti i requisiti che cercavamo, ma c’era una cosa a cui non avevamo pensato.
Una cosa che non avevamo fatto in modo corretto.
Avevamo costruito una casa con troppe ombre. Non è una di quelle cose che si notano subito; oh, no.
Le ombre non divennero evidenti finché non fu troppo tardi.
Ovvio. Non finché non fu troppo, troppo tardi.
E presto fu chiaro a noi tutti che il disastro era quasi giunto. Questo fu facile dedurlo dal fatto innegabile che molte delle cose alle quali eravamo abituati avevano smesso di funzionare.
I telefoni erano diventati inaffidabili, e i buchi nei muri non davano più soldi. Non c’era più benzina, il che generò alcune scene davvero poco piacevoli, sia per strada che da altre parti. La gente si era spesso dimostrata egoista prima di allora, ma con la fine della benzina cominciò a comportarsi in maniera assolutamente sconsiderata.
Oltre ai nostri guai, che aumentavano di giorno in giorno, gli impiegati di call center, che erano sempre stati difficili da contattare, e su cui contavamo per parecchie cose, divennero spesso del tutto assenti, e le poche volte che i telefoni funzionavano di solito rispondeva una voce registrata che elencava diverse opzioni prima di zittirsi.
Una sera la televisione non ebbe nulla da mostrarci.
E poi, all’improvviso, non potemmo più comprare giornali e altri svariati oggetti tra cui sapone, detersivo per lavastoviglie, rasoi, lampadine, sacchetti per l’aspirapolvere e carta igienica, perché la famiglia che gestiva il negozio non c’era più. Provammo a cercare altri negozi, ma tutte le famiglie che li gestivano se n’erano andate anche loro.
Ora dovevamo pensare al come prendere, invece che al quanto prendere. Era stressante. Iniziai a pensare spesso che la nostra civiltà, ultimamente, aveva iniziato a rendere le cose più semplici incredibilmente tortuose. Avevamo perfezionato un livello di complessità che ormai ci sembrava psicotico per svolgere semplici attività umane come mangiare, pulire la casa e spostarci da un posto all’altro.
La nostra fornitura di elettricità divenne irregolare. Alla fine di una giornata piena di forme di panico minori, divenne chiaro che era finita del tutto.
Fu lì che iniziarono i veri problemi.
Se mi guardo indietro, riconosco che erano iniziati già molto tempo prima. I nostri problemi erano iniziati molto, molto tempo prima, quando erano invisibili, ed erano continuati anche quando, gradualmente, iniziarono a divenire evidenti.
I problemi erano cresciuti ed erano aumentati a causa della nostra indifferenza, del nostro cinismo, e del modo ignorante in cui avevamo deciso di vivere. I nostri problemi in fieri erano l’oscuro e inevitabile spettro che ci accompagnava alla cassa, al lavoro, al supermercato e fin dentro i nostri letti scomodi e inquieti.
E dopo la fine dell’elettricità, le ombre iniziarono a cospirare contro di noi.
Gli angoli oscuri iniziarono a spaventarci più del disastro in arrivo. Il disastro era imminente; quello era reso evidente dalla scomparsa di parecchie cose che avevamo ritenuto essenziali per la nostra esistenza.
Ma la minaccia delle ombre che si muovevano nella nostra casa era peggiore, di gran lunga peggiore.
Iniziammo, quasi impercettibilmente, ad andare in panico.
Anche se continuavamo a rassicurarci a vicenda di essere al sicuro, che il disastro ci avrebbe lasciati indenni, che avevamo numerose scorte di viveri e che potevamo difenderci e tutelarci da qualsiasi eventualità, le ombre insistenti facevano luce sulla nostra vulnerabilità.
Quando arrivava la notte, ci ritiravamo in un minaccioso silenzio, guardandoci l’un l’altro con sospetto, inventando giustificazioni per i nostri sentimenti oscuri.
Nascondevamo i nostri desideri nascosti; cospiravamo insieme alle ombre.
Sembrava non succedere nulla.
La televisione, avevo capito, era stata una specie di terminale che mi collegava ad una più vasta comprensione degli eventi. Durante le notti insonni non riuscivo più, senza giornali, a scrivere i miei titoli immaginari. La preoccupazione divenne costante; la preoccupazione e l’esilio forzato da tutto ciò a cui ero abituato.
Non avevo mai contemplato un concetto di solitudine che non includesse le persone. E invece era proprio la mancanza di piccole cose che prima davo per scontate a rendermi solo. Mi mancavano il tè, il dentifricio, i telecomandi, il caffè, le penne a sfera, la margarina, le batterie AA, e il comprare cose in negozi di lusso. Mi mancavano le mie riviste preferite.
E il silenzio mortale che rivestiva il telefono e la televisione mi rendeva solo. E lo sguardo vuoto negli occhi della gente, oh...
Dopo la fine dell’elettricità, le notti si allungarono.
Eravamo costretti ad aspettare nell’oscurità, con le orecchie tese.
La vita era velocemente diventata insopportabile per qualcuno di noi.
Non è che trovassi la mia esistenza più tollerabile della loro, è solo che sentivo di avere una sorta di forza d’animo, una sorta di... saggezza.
Nessuno era felice.
La luce in casa diminuiva sempre più; le ombre diventavano sempre più scure. E ancora aspettavamo il disastro.
E quando guardavo, quando la gente passava davanti alle finestre immersa nella luce grigia, le loro ombre proiettavano velocemente scuri artigli sferraglianti sul pavimento. La cosa peggiorava dopo che la luce svaniva.
Io impedivo loro di muoversi, perché era diventato impossibile distinguere un’ombra dall’altra. O un’ombra da un essere umano.
Il mio fu un gesto necessario, un gesto che serviva a dimostrare che dovevamo essere forti e uniti contro l’incombente disastro.
Quell’uomo era sempre stato inaffidabile, ma alcuni eventi mi avevano dimostrato che era anche un rischio. Se non l’avessi fatto io, qualcun altro avrebbe dovuto prendere quella terribile decisione.
Nessuno vide niente; ma non avrebbe fatto nessuna differenza se l’avessero visto.
Non provavo vergogna, e dopo alcune proteste spiegai il mio ragionamento e le mie azioni agli altri. Ma non scesi nei dettagli; se avessi raccontato loro quanto aveva lottato, e quanto tempo ci avevo impiegato, sarebbero sicuramente sorti dei problemi. Trasportammo la sua carcassa oltre il filo spinato del perimetro e la lasciammo in un fosso. Inevitabilmente alcune persone si lamentarono, e subito dopo toccò a loro.
Quando il disastro sta arrivando è difficile vedere chiaramente, ma non so come io riuscivo a scorgere una luce attraverso le ombre.
Seguì un lungo periodo di eventi spiacevoli.
Man mano che le persone in casa diminuivano, le ombre sembravano diventare di più e più fitte. Spesso rileggevo con attenzione i miei estratti conto bancari sbiaditi, perso in fantasticherie di transazioni finanziarie ormai finite da un pezzo. Non mi piaceva essere disturbato. No. Non mi piaceva affatto.
Il disastro stava arrivando. Era chiaro.
C’erano ombre ovunque.
Quando alla fine rimasi solo io, quando tutte le altre persone erano scomparse, aspettai il disastro da solo.
Da solo.


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